Fiat È l’ora della verità per il capitalismo E per la classe operaia

Il capitalismo, vero, è quello di Marchionne, e lo sarà sempre ed ovunque
La previsione marxista di un capitalismo destinato a cadere in crisi sempre più gravi e che si alimenta solo con la vita dei suoi schiavi salariati, è ogni giorno più confermata.
L’attacco della Fiat è quello che si verifica in tutti i paesi e in tutte le categorie e non è, come sostiene il sindacalismo di regime, e anche la sua sinistra, la Fiom, “scelta” di una particolare “cultura aziendale” e di un amministratore delegato “amerikano” e liberista.
L’intero capitalismo è afflitto da una generale crisi di sovraproduzione. Nell’auto si calcola che in Europa e in USA la sovracapacità produttiva oggi sia fra il 30 e il 40%. Questo processo, non voluto da nessuno ma risultato naturale e spontaneo delle leggi che regolano la produzione capitalistica, ha condotto ad una elevata concentrazione – altra classica previsione marxista – col passaggio a poche aziende sovranazionali in competizione per la vita o per la morte. Tutte le case costruttrici sono quindi costrette a sfruttare in modo parossistico i propri lavoratori; quelle che non l’hanno già fatto a fondo presto lo faranno.
L’accordo di Mirafiori dimostra che non può esistere un capitalismo “dal volto umano”. La Fiat, come la maggior parte delle aziende, per cercare di restare in vita deve esasperare lo sfruttamento dei suoi operai. Lo fa già da anni, e con l’avvallo di tutti i sindacati, Fim, Uilm e anche Fiom. Finché oggi i ritmi di lavoro divengono tali da non poter essere accettati dai lavoratori, nemmeno col lavorio di convincimento dei sindacati confederali, ma solo imposti.
Allora crolla la finzione della democrazia in fabbrica. La Fiat non può più permettersi che i carichi di lavoro più pesanti siano anche solo in parte vanificati dal ricorso dei lavoratori a quei mezzi con cui essi – nella loro attuale incapacità di una vera lotta frontale – riuscivano finora a sfuggire un poco a quell’inferno, come le due ore di sciopero a fine turno o il ricorso alla malattia.
Se non c’è più spazio per fingere la conciliazione degli interessi, la concertazione, non ci sarà nemmeno per quel sindacato che su quel principio di “relazioni industriali” si è costruito. Restano in piedi solo due tipi di sindacato: o quello dichiaratamente a servizio dell’azienda, e da questa “riconosciuto”, o il sindacato di classe, per costituzione nemico del padrone, fondato solo sulla sua forza di organizzazione e di mobilitazione, e non riconosciuto da nessuno, se non dalla classe lavoratrice.
Gli accordi di Pomigliano e di Torino segnano una tappa in direzione di questo processo, non il suo compimento.
La Fiom per molti decenni è stata preziosa per la Fiat, e buona parte del padronato la considera ancora tale. I borghesi sanno che privare i lavoratori di un inquadramento sindacale che predica la conciliazione degli interessi, spingendoli verso la costruzione di un vero e combattivo sindacato di classe costituisce un passo pericoloso. La ragione glielo mostra prematuro, non ancora necessario. Ma, di questi tempi di catastrofe, la ragione non basta e la lotta di classe, primo motore del divenire sociale, nelle sue forme determinate s’accende da sola. Quando la barca del capitalismo affonda le apparenze debbono passare in secondo piano, si sollevano i veli ipocriti: il Capitale tutto e tutti pretende trascinare con sé nell’abisso.
La Fiat ha dovuto mettere Confindustria e sindacati confederali davanti al fatto compiuto. La situazione è troppo grave per trastullarsi con i tempi lunghi delle “trattative”: occorre ubbidienza e disciplina, da tempo di guerra.
Staremo a vedere se il futuro svolgimento della crisi generale consentirà che, se la Fiat ha fatto tre passi avanti, Confindustria e confederali ne facciano almeno uno o due, varando un nuovo accordo sulla rappresentanza e la “democrazia sindacale”; vedremo se la Fiat potrà rientrare nelle nuove regole, e se la Fiom riavrà i “diritti” in Fiat.
Si capisce bene che, se nella vicenda Fiat la Fiom ha potuto assumere atteggiamenti da vittima, ciò non è dovuto a una sua natura di sindacato di lotta e di classe. La Fiom è stata “licenziata” dalla Fiat, la quale non è oggi in condizione di tollerare ed ospitare nei suoi stabilimenti nemmeno una finzione di sindacato. Il che sarebbe un fatto positivo, nel senso che indica la necessità di uno vero sindacato, che non chieda il permesso del padrone per organizzarsi, partendo da fuori della fabbrica, e dal padrone non si faccia raccogliere le quote.
La Fiom da sempre ha ricercato l’unità con Fim e Uilm e con queste ha “contrattato” e firmato tutti i peggioramenti con l’azienda.
Nel 1986 a Termoli con la firma della Fiom è stato introdotto per la prima volta il lavoro notturno obbligatorio per le donne, e poi negli altri stabilimenti.
Sempre Termoli fu prima a passare nel 1994 dai 15 ai 18 turni. Poiché quell’accordo, firmato anche dalla Fiom, fu respinto dai lavoratori nel referendum, nell’occasione furono mobilitati i massimi vertici dell’organizzazione per rimediare alla volontà “democraticamente” espressa dai lavoratori. Per due settimane nelle assemblee i delegati Fiom, insieme a quelli Fim e Uilm, terrorizzarono i lavoratori con la minaccia dello spostamento della produzione da Termoli a... Mirafiori. Queste le belle parole dell’allora segretario Fiom Claudio Sabattini: «Se deciderete per il no [come se col referendum gli operai non avessero già deciso!] noi rispetteremo la vostra decisione. Però non si dica che non vi abbiamo avvisato che così veniva distrutta una realtà industriale al Sud». Almeno oggi Marchionne non ha l’ipocrisia di dire che in caso di voto contrario rispetterebbe l’opinione espressa dai lavoratori! La sostanza del ricatto è la medesima.
Nel 2008 alle Meccaniche di Mirafiori avvenne lo stesso, con la Fiom che firmava l’accordo per il passaggio ai 18 turni e che fu respinto al referendum dai lavoratori, fra cui anche alcuni delegati Fiom.
Nella vicenda attuale, da Pomigliano a Mirafiori, Landini ha ripetutamente dichiarato la disponibilità della Fiom ad accettare l’aumento dei ritmi.
La Fiom, come la Fim e la Uilm, ha sempre accettato il principio secondo il quale i lavoratori debbono farsi carico della competitività dell’azienda. Mai si è posta sul piano di classe, esprimendo la necessità che gli operai si oppongano ad essere messi in concorrenza con quelli delle altre case automobilistiche in Europa e nel mondo, perché altrimenti non c’è limite ai peggioramenti, fino al consumarsi del fisico dell’operaio. Facendo suo invece il principio secondo il quale è interesse anche degli operai rendere l’azienda più competitiva la Fiom ha assecondato il capitale a dividere e sfruttare i lavoratori di tutti i Paesi. Ancora peggio, fra gli stessi stabilimenti in Italia, come nell’esempio di Termoli, o con la firma del patto territoriale per la Fiat di Melfi.
Tutta questa impostazione dell’azione sindacale, prettamente “borghese”, lega le sorti dei lavoratori a quelle dell’azienda invece che alla loro capacità di unirsi al di sopra delle imprese e delle categorie. Questa linea politica non è nemmeno oggi messa in dubbio dalla Fiom, ma rivendicata, anzi, esibita per dimostrare la pretestuosità delle “scelte” di Marchionne. La Fiom è vittima innanzitutto di se stessa e non vuole e non può, per quello che è e per tutto quanto ha fatto in passato, agire come un sindacato di lotta, scontrandosi frontalmente con la Fiat e con tutto il padronato.
Ma nemmeno può accettare la morte della “democrazia sindacale” firmando gli accordi di Pomigliano e Mirafiori, perché così perderebbe quel ruolo mediano che è nella sua natura – e di cui ancora può avvalersi in tutte le altre fabbriche – e finirebbe per non distinguersi affatto da Fim e Uilm.
Quanto occorso dall’accordo per Pomigliano, del 15 giugno, a quello per Mirafiori, del 23 dicembre, conferma che l’attacco sferrato dalla Fiat non ha affatto mutato l’atteggiamento della Fiom. Nonostante fin dall’accordo di Pomigliano fossero chiare le intenzioni della Fiat e del padronato, come la stessa Fiom ha subito denunciato, essa non ha proclamato immediatamente lo sciopero generale di tutta la categoria a difesa del contratto nazionale, e nemmeno quello di tutti i lavoratori Fiat. La vicenda di Pomigliano è rimasta una questione dei lavoratori di quello stabilimento, per di più in cassa integrazione, nonostante fosse evidente che riguardava non solo tutti gli operai Fiat e nemmeno i soli metalmeccanici ma tutta la classe lavoratrice.
A luglio la Fiom ha poi proclamato una giornata nazionale di mobilitazione dei metalmeccanici, non per uno sciopero ma per una manifestazione, da tenersi... tre mesi dopo, il 16 ottobre.
Quando il padronato ha compiuto il passo successivo, con la disdetta il 7 settembre del contratto metalmeccanico del 2008, dimostrando quanto denunciato fin da Pomigliano, e cioè l’intenzione di distruggere il contratto nazionale di categoria per sostituirlo con contratti aziendali, la Fiom ha risposto con 4 ore di sciopero divise per azienda.
Alla manifestazione del 16 ottobre a Roma Landini ha lanciato la richiesta alla Cgil di indire uno sciopero generale. Nell’attesa della proclamazione dello sciopero, che non c’è stata, la Fiom si è ben guardata dal cominciare intanto a indire lo sciopero generale della categoria.
Si è giunti così all’accordo per Mirafiori del 23 dicembre e la Fiom si è finalmente risolta a indire lo sciopero. Ma per il 28 gennaio, due settimane dopo il referendum sull’accordo, senza alcuna intenzione quindi di influire sul suo esito. Si tratta ancora di uno sciopero per esprimere la propria opinione contraria, non certo per respingere con la forza il nuovo pesante attacco.
La vittoria del “no” al referendum comporterebbe necessariamente una successiva mobilitazione dei metalmeccanici. Ma la Fiom, che non ha voluto né potuto mettere in campo una simile mobilitazione in questi sei mesi, non può né vuole farlo ora. Non vuole, perché è intimamente legata a una pratica di ricerca del compromesso col padronato che le garantisca tutti quei diritti sindacali sui quali vive la sua struttura e che non può compromettere con una vera lotta generale contro di esso. Non può perché tutta la sua azione sindacale passata, imperniata sulla ricerca della conciliazione degli interessi col padronato, non ha rafforzato ma demolito la capacità di lotta dei lavoratori.
D’altro canto la Fiom è stata emarginata solo in due stabilimenti Fiat. Può ancora contare sulla consapevolezza di buona parte del padronato che ben sa che “se c’è un sindacato che fa accordi è la Fiom”, per dirla con Landini.
La Fiom quindi non conta affatto di porsi sulla strada della ricostruzione della forza dei lavoratori per respingere gli attacchi odierni e futuri. E nemmeno per difendere se stessa. Fino all’ultimo cercherà una sponda fra le fazioni del padronato che le garantisca la prosecuzione della sua funzione conciliatoria, anche se verrà condotta in spazi sempre più angusti e puramente simbolici. Fino all’ultimo difenderà la “democrazia” e proprio per questo si rifiuterà di impostare la sua azione sull’unico piano reale, quello dei rapporti di forza. Questa condotta è fallimentare e suicida come, con una piccola anticipazione di più grandi episodi futuri, ha dimostrato la vicenda Fiat.
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L’esito del referendum di Mirafiori è stata una prova d’orgoglio degli operai. In gran parte non hanno ceduto al ricatto dell’azienda. Una prova di coraggio che dimostra come la classe operaia non sarà mai definitivamente piegata e succube alle esigenze del capitalismo, come la descrivono e la sognano gli ideologi della borghesia.
Ma non è un referendum che decide la vittoria o la sconfitta in una battaglia sindacale. Questa è il risultato delle forze materiali messe in campo. Tanto quanto sono forze materiali quelle succhiate dall’azienda, dal Capitale, al fisico e alla mente degli operai, ogni giorno della loro vita. Altrettanta forza deve essere impiegata dai lavoratori per opporsi alla violenza del Capitale che vuole strappare loro ancora più fatica, sudore, logoramento fisico e mentale, per donarlo al profitto.
Questa forza non è un segno di penna su una carta, ma sono scioperi, assemblee, riunioni. Veri scioperi: non limitati all’azienda o al reparto ma estesi il più possibile a tutta la classe operaia. Vere assemblee: fuori dall’orario di lavoro, fuori dalla fabbrica, nelle sedi delle organizzazioni operaie, insieme ai lavoratori di tutte le aziende.
Tutto questo non c’è stato prima del referendum. Tutto questo se ci fosse stato avrebbe reso vuoto di significato l’esito di una conta dei voti che mostra la menzogna insita nel principio "una testa, un voto". Non solo a decidere per gli operai sono stati quadri e impiegati. Ma nel referendum gli operai in lotta mettono sullo stesso piano il loro voto con quello di chi nulla ha scarificato di sé per la battaglia, i crumiri, gli individualisti, i deboli di fronte al ricatto padronale.
Diverso il voto nelle assemblee operaie e sindacali. Vota chi c’è, chi fa la fatica di recarvisi. Si vota per alzata di mano, non nel segreto dell’urna, e si è responsabili di quel che si fa di fronte agli altri. Ma un’assemblea non è un organismo conciliatorio, riconosciuto cioè dall’azienda. È un organismo di lotta, di una sola parte, dei lavoratori, e non serve ad accettare o meno un accordo, serve a decidere se continuare la lotta contro di esso. Se gli operai arrivano a riporre solo in un referendum le sorti della battaglia hanno già perso.

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