La deindustrializzazione in atto, la distruzione dei diritti, le responsabilit....

 In Italia, a partire dagli anni 30 e con una ulteriore spinta nel dopoguerra, l'intervento pubblico in economia ha caratterizzato il nostro paese rispetto al resto dei paesi europei. La forte presenza dello Stato e del pubblico in generale nell'economia rispondeva anche all'esigenza di compensare o addirittura di sostituire in alcuni casi l'economia privata
(caratterizzata da una parte dalla diffusione delle imprese di piccole dimensioni e dall'altra da un capitalismo di tipo familistico) ma anche di svolgere un ruolo di "ammortizzatore" sociale e politico delle rivendicazioni del movimento dei lavoratori. Ruolo che viene mantenuto fino agli anni '80 quando viene invece avviata la riduzione della presenza dello "Stato imprenditore", e tutto questo insieme ad un vasto processo di privatizzazione e di aziendalizzazione dello stesso welfare pubblico.
I processi di privatizzazione sono stati falsamente giustificati con:
-        una esaltazione delle magnifiche potenzialità di una gestione privata rispetto alla gestione pubblica (invece di liberarsi dalla gestione dei corrotti e malavitosi ci si è liberati delle stesse proprietà pubbliche, sostituendo una dirigenza pubblica spesso politico-clientelare con una imprenditoria incompetente e/o arraffona);
-        la supposta convenienza a vendere il patrimonio pubblico per reperire risorse da utilizzare per la riduzione del debito pubblico (e come sappiamo il problema non è stato affatto risolto con queste operazioni);
-        la necessità di rafforzare il mercato finanziario per stimolare l'economia, dalla privatizzazione delle banche pubbliche alla trasformazione delle aziende pubbliche in spa, fino alla vendita delle azioni in borsa (ma l'allargamento dell'economia finanziaria e speculativa come sappiamo non ha prodotto un ritorno di investimenti sulla produzione).
Fino all'inizio degli anni '90 il sistema pubblico aveva un peso enorme nell'economia italiana e rappresentava circa il 20% dell'occupazione.
Grazie all’imprenditoria statale, si arrivò al fatidico “sorpasso del 1991”
“Italia quarta potenza industriale al mondo”.
Il 15 maggio 1991 il ministro degli Esteri Gianni De Michelis rese noto che, secondo il rapporto messo a punto dalla società Business International l'Italia era diventata la quarta potenza industriale del mondo, davanti alla Francia e alla Gran Bretagna, dopo Stati Uniti, Giappone e Germania.
Mentre in altri paesi europei come Francia e Germania si è mantenuto un certo connubio tra l'imprenditoria pubblica e quella privata, in Italia si è realizzato negli anni un vero e proprio smantellamento dell'economia mista.
Una radicalità che si è espressa soprattutto anche grazie ad un liberismo spinto fatto proprio dallo schieramento di centro sinistra PDS-PD e dalla voracità di un padronato che non ha perso l'occasione per accaparrarsi pezzi di economia che consentissero rendite di posizione assicurate (esempio più classico i Benetton con le autostrade).
Nell'attuazione concreta dei processi di privatizzazione e delle dismissioni hanno prodotto varie conseguenze che possiamo schematicamente riassumere in:
-        indebolimento complessivo del tessuto e del sistema economico e produttivo e deperimento della qualità nei servizi pubblici;
-        peggioramento delle condizioni di lavoro con crescita della precarietà e della disoccupazione;
-        incremento delle tariffe e dei costi per i settori popolari.
-        aumento sconsiderato delle tasse dovuta all’unica entrata per lo stato.
A partire dagli anni '80 il FMI (Fondo Monetario Internazionale) imponeva ai cosiddetti "paesi in via di sviluppo" le privatizzazioni delle proprie economie e delle risorse ambientali tramite i Programmi di Aggiustamento Strutturale (SAPs), questo in nome del risanamento e della riduzione dei debiti e per concessione di nuovi crediti internazionali. Tali ricette di rapina si trasformarono in un saccheggio di risorse e a vantaggio delle multinazionali e dei capitali dei paesi "sviluppati".
Il processo di costituzione dell'Europolo e dell'Unione Europea (a partire dal Mercato Unico Europeo del 1992), nell'ambito dell'accresciuta competizione internazionale, importa un simile modello anche all'interno delle politiche comunitarie europee, dove il sud del mondo viene "sostituito" con il sud dell'Europa (i paesi PIIGS: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna).
Anche con le norme contro gli "aiuti di Stato alle imprese" e gli obblighi a incentivare il libero mercato e la concorrenza, vengono imposte politiche di "aggiustamento" anche qui ora centrate sulla riduzione del debito pubblico, dismissione del sistema economico pubblico, liberalizzazioni e privatizzazioni. Politiche che come successo per i paesi in via di sviluppo sommano a precedenti deficienze strutturali nuovi vincoli e problemi.
L'Italia, partendo da un livello alto di partecipazione pubblica, si è distinta nel processo di dismissione superando negli incassi da "privatizzazione" paesi riconosciuti come iperliberisti come la Gran Bretagna. Mentre nei paesi centrali e dominanti della UE (come Francia e Germania) si sta comunque ben attenti a controllare i settori strategici pubblici, si impongono ai PIIGS una deindustrializzazione su larga scala e una feroce privatizzazione con relativo shopping di aziende e di pezzi di mercato liberalizzato da parte delle multinazionali europee.
Come un pescecane affamato il capitale divora tutto, per rimediare alla caduta del saggio di profitto dovuto al surplus produttivo, si sposta dalla produzione di beni e servizi al settore finanziario, con intento puramente speculativo.
Fatte salve le differenze tra capitale <<produttivo›> e capitale «finanziario›>, eminentemente parassitario, il capitale persegue sempre il massimo profitto ovunque esso si trovi.
Con le speculazioni finanziarie, però, non si crea ricchezza reale, ma solo ricchezza virtuale, un turbine di numeri che gira nei computer delle banche internazionali, senza alcuna corrispondenza alla produzione materiale.
Da questo distacco tra reale e virtuale originano le «bolle›>, quelle gigantesche catene di Sant’Antonio in cui a bruciarsi sono sempre i piccoli risparmiatori o la gestione dei loro risparmi, come i Fondi pensionistici.
Di fronte a queste cifre, il debito pubblico, che ha oramai superato i 2 mila miliardi di euro nonostante i sacrifici imposti negli anni dai vari governi in nome della stabilità, impallidisce.
La crisi che stiamo vivendo non dipende solo dalla giostra finanziaria, il cosiddetto capitalismo-casinò.
Questo è semmai un effetto della crisi di sovrapproduzione che, si riflette semmai sulla causa, influisce su di essa e ne amplifica gli aspetti. Come vedremo, la crisi finanziaria è al tempo stesso pretesto e strumento per piegare i popoli alle politiche antipopolari di saccheggio dei beni pubblici e di impoverimento dei lavoratori.
In realtà, l’UE è lo strumento con cui la borghesia italiana e le altre borghesie europee conducono più organicamente la loro offensiva contro il popolo, per imporre ed attuare più efficacemente politiche antipopolari a sostegno del capitale nei rispettivi paesi. Attraverso una dissennata politica di crescenti privatizzazioni, portata avanti sia dai governi di centrosinistra che da quelli di centrodestra, vengono dilapidati il patrimonio pubblico e il settore statale dell'economia, abbandonati al saccheggio dei privati nostrani, quasi sempre mossi da intenti puramente speculativi, e delle borghesie imperialiste più forti.
L'intreccio tra politica corrotta, crimine organizzato e capitale è particolarmente evidente e attivo in questo processo. La scomparsa del settore pubblico, privatizzato spezzettando grandi unità produttive integrate in unità più piccole, acquisite dai privati con investimenti ridicoli e spesso utilizzando appositi incentivi statali, la crescente internazionalizzazione della FIAT e la delocalizzazione delle produzioni all’estero, hanno di fatto cancellato la presenza in Italia della grande industria, con una duplice, deleteria conseguenza.
Da un lato, abbiamo assistito alla ulteriore trasformazione del capitale industriale in capitale immobiliare e finanziario, sostanzialmente improduttivo e parassitario. Dall’altro, è stato sguarnito il paese di un apparato produttivo moderno e significativo sul piano della concorrenza internazionale, in quanto oggi l’Italia dispone solo di micro, piccole e medie imprese che, per dimensioni e assenza di economie di scala e di concentrazione, sono del tutto inadeguate e marginali a livello internazionale.
Le imprese, private a causa dell’euro dell'arma della svalutazione competitiva, individuano nella riduzione del costo del lavoro, e precisamente del salario nelle sue diverse forme, l’unica via per il recupero di competitività. Oltre alle imprese, si privatizzano trasporti, sanità e servizi d’assistenza alla persona, previdenza, cultura, istruzione, trasformando in oggetto di scambio e fonte di lucro diritti essenziali della persona umana, di fatto limitandoli o addirittura azzerandoli.
La devastante deregolamentazione del mercato del lavoro, maturata teoricamente nel brodo di coltura del giuslavorismo di matrice PDS-DS-PD, avviata dai governi del centrosinistra e continuata da quelli di centrodestra (pacchetto Treu, legge n. 30, ecc.), ha cancellato diritti e tutele dei lavoratori, fino ad arrivare all'odierna libertà di licenziare senza possibilità per il lavoratore di ricorrere contro il licenziamento davanti a un giudice.
È stato de- strutturato il CCNL (Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro), rafforzando la contrattazione di secondo livello, dove i lavoratori sono più isolati e più deboli. Sono state introdotte infinite tipologie di contratti atipici, tutti a tempo determinato e tutti sgravati da oneri fiscali e contributivi per i padroni, i primi assorbiti dallo Stato, i secondi scaricati sui lavoratori. Il minore introito contributivo è stato fatto pagare al popolo, attraverso il peggioramento delle condizioni di pensionamento e l’ulteriore, assurdo, allontanamento dell’età pensionabile.
 Ovviamente, queste misure, contrabbandate per incentivi all’occupazione quando in realtà sono incentivi allo sfruttamento e al profitto, non hanno alcun effetto positivo sui livelli occupazionali: la disoccupazione totale è cresciuta, toccando ufficialmente l’11%; quella giovanile è quasi al 40%, con punte del 60% in alcune aree del paese, dati secondo l’istat, che come diceva lo stesso Di Maio al convegno sul Job Act, calcolati in modo strumentale, visto che basta lavorare anche un solo giorno magari con i voucher per ritenerli occupati, quindi la disoccupazione reale è ben più ampia.
Il capitalismo sostituisce lo statista come decisore politico, sostituisce la politica con il suo business, sostituisce la volontà delle nazioni con la sua propria volontà, sostituisce il diritto costituzionale e pubblico con i suoi regolamenti privati internazionali, sostituisce i parlamenti con i suoi centri di regolamentazione, sostituisce le monete nazionali e i tribunali dello Stato con la sua moneta e con i suoi tribunali, scavalca gli eserciti nazionali con i suoi eserciti privati di contractors. Lascia in essere gli Stati come suoi debitori obbedienti nonché come esecutori e cinghie di trasmissione delle sue decisioni nei confronti dei popoli, per rimescolarli, riformattarli, toglier loro progressivamente risorse, sicurezza, privacy, capacità politica, facendone una massa passiva senza identità, condizionata a pensare, agire e reagire secondo clichés.
La rinuncia alla produzione e regolazione pubblica della moneta, l’imposizione della autonomia o meglio sovranità dei banchieri centrali rispetto agli organismi rappresentativi e anche al potere giudiziario, l’impero del rating ricattatorio fatto da banchieri privati e del conseguente spread dei rendimenti del debito pubblico, hanno comportato in breve tempo l’indebitamento inestinguibile e la conseguente privatizzazione dello Stato e delle sue funzioni.
Se il banchiere centrale è indipendente dallo Stato, allora automaticamente lo Stato è dipendente dal banchiere centrale. Esso di fatto riceve ed esegue una politica dettata dall’esterno di esso, da interessi politici ed economici organizzati.
La legislazione europea, che sostituisce quelle nazionali, è un processo burocratico gestito dalle lobbies finanziarie e commerciali assieme ai funzionari comunitari nelle loro stanze chiuse di Bruxelles.
Dietro la supposta competenza e tecnocrazia comunitarie (peraltro fallimentari alle prova pratiche, dalla politica agricola comune all’euro all’immigrazione), dietro il “c’è lo chiede l’Europa”, c’è il capitalismo che attraverso politici e burocrati scrive il regolamento o la direttiva. Poi la Commissione impone agli Stati di obbedire a queste norme sotto minaccia delle famose sanzioni.
La vera riforma costituzionale, già attuata è la filiera della normazione delle regole che, come tali, “sono sempre da rispettare”,
·       la lobby privata che richiede le norme,
·       organismo sovranazionale burocratico che le emette (UE, Wto, Fmi etc.)
·       governo nazionale che le fa recepire al parlamento nazionale e poi le esegue, altrimenti il paese viene sanzionato.
Le riforme elettorale e costituzionale renziane servono a eliminare il residuo filtro di una possibile opposizione parlamentare nella fase di recepimento, facendo più automatico questo iter normativo che rende la volontà e l’interesse dei cittadini ininfluenti e impotenti rispetto a quegli interessi e a quei dettami.
E’ questo che Renzi intende come snellimento del processo legislativo e che dice che viene apprezzato dall’Unione Europea. Sono riforme che mirano a perfezionare la privatizzazione del potere legislativo. E a renderlo così fluido, automatico, scontato, che la gente non si accorga nemmeno che le leggi vengono fatte e imposte in quel modo assolutamente antidemocratico, o più esattamente completamente assolutistico.
Il mito dell’unificazione europea da un lato, e la successione di crisi economiche dall’altro lato, hanno molto aiutato la realizzazione di questo nuovo ordine mondiale. Non ha quindi molto senso cercare di convincere i suoi grandi decisori a introdurre misure per prevenire o risolvere le crisi stesse.
Un simile Stato, privatizzato e direttamente dipendente da interessi e poteri privati, escludente la partecipazione il controllo popolari, privo di sovranità propria, semplicemente non è più “Stato ” perché non ha più le caratteristiche proprie ed essenziali dello Stato, ossia la sovranità rispetto appunto agli interessi privati, i quali – scusate se mi ripeto – gli dettano le regole e le leggi che deve emettere e imporre alla popolazione, facendone uno strumento impotente e con funzione di capro espiatorio dei disastri delle ideologie economiche che gli si fa implementare e imporre alla gente.
Che cos’è allora questo Stato? È un’azienda, un’agenzia privatizzata, un front office con servizio esattoriale, al servizio del vero signore, del vero sovrano.
Il popolo non è tenuto ad accettare un ordinamento che rende superflua e irrilevante la sua volontà e il suo benessere al fine delle decisioni dell’ordinamento stesso. Nessun uomo è tenuto ad accettare un potere che non lo considera soggetto ma oggetto.
E se non è Stato, non è Repubblica, non rispetta i requisiti fondamentali della costituzione (la sovranità appartiene al popolo), allora l’uomo, la gente, non solo non è più legalmente tenuta ad obbedirlo, anzi a riconoscerlo, bensì può e deve costituirsi in uno Stato-Repubblica che sia veramente tale escludendo con apposite norme della sua costituzione la dipendenza dal capitale e dai suoi gestori, vietando e rendendo giuridicamente nullo qualsiasi sistema di mercato della finanza per la finanza.
Quello che stiamo vedendo, il più spaventoso attacco alle condizioni di vita e dei diritti dei lavoratori, l'impoverimento dei ceti medi, l’aggressione e la spoliazione delle nazioni, è esattamente il programma che le classi dominanti prefiggevano per l'Europa unita fin dalla sua nascita.
Sono illusi quelli che hanno creduto e credono ancora oggi a un'«Europa dei popoli» e non vedono l'Europa dei monopoli e delle banche, in realtà sono dei collusi e non degli illusi. Solo chi non ha una prospettiva di classe e ha smarrito la memoria storica del proletariato può fare finta di credere che i capitalisti possano cambiare natura. Il capitalismo nel solo secolo scorso ha generato due guerre mondiali micidiali, il fascismo e il nazismo, oggi schiavizza mezza Europa orientale e intende fare la stessa cosa con quella meridionale, ha distrutto stato sociale e diritti, formali e sostanziali, dei popoli, scardinato il mercato del lavoro, saccheggiato i beni comuni, lanciato la nuova campagna neocoloniale in Africa e ci sta probabilmente trascinando in un disastro planetario.
L’Unione Europea è una struttura politica dell’imperialismo europeo, egemonizzata dalle potenze economicamente più forti. L’Euro è uno degli strumenti con cui oggi il capitalismo europeo attua l’oppressione, economica e politica, dei popoli, limitandone la sovranità.
Anche se necessario uscire dalla moneta unica, la questione, non è solo quella di uscire dall’Unione Europea e ristabilire la sovranità tradizionalmente intesa, né quella se mantenere l’euro o ritornare alla vecchia moneta nazionale.
Il vero nocciolo è quello di uscire dai rapporti di produzione capitalistici che hanno generato questa Unione Europea e questa moneta unica.
Una forza politica realmente rivoluzionaria dovrebbe proporre nel suo programma sul Lavoro
·       abrogazione di tutte le leggi che legittimano situazioni di precarietà del lavoro o che discriminano i lavoratori per genere e età;
·       messa fuori legge e perseguibilità penale del caporalato, sotto qualsiasi forma; (lavoro in affitto)
·       ripristino della piena validità e preminenza del Contratto Nazionale Collettivo di Lavoro;
·       ripristino della legge 300 così come prevista prima delle varie riforme a partire dalla riforma dell’art. 19 tanto voluta dal sindacato confederale per eliminare la possibilità di scegliere da chi farsi rappresentare.
·       istituzione di un salario minimo garantito, idoneo a garantire un esistenza dignitosa, garantito per legge dallo Stato e al quale nessun contratto tra le parti sociali possa derogare;
·       istituzione di un’indennità di disoccupazione, a tempo indeterminato fino alla proposta di nuova assunzione, non inferiore al 80% dell'ultimo salario percepito; istituzione di un'indennità, a tempo indeterminato fino alla proposta di assunzione, pari al 50% del salario medio, per i giovani in cerca di prima occupazione al termine dell’istruzione obbligatoria;
·       riduzione dell'orario lavorativo a parità di salario e contributi; ripristino dell'indicizzazione dei salari al costo della vita (scala mobile);
·       politica di controllo popolare alla fonte dei prezzi dei generi di prima necessità e di largo consumo; abolizione delle imposte indirette sui generi di prima necessità; controllo dei lavoratori sulle condizioni di sicurezza e salute sul lavoro;
·       inasprimento delle pene per chi le disattende; politiche di prevenzione degli incidenti e delle malattie professionali;
·       politiche di sostegno alla ricerca applicata e all'innovazione, di prodotto e di processo, per le piccole imprese, favorendone la concentrazione e l’integrazione in forme associate consortili o cooperative, in modo da consentire loro di acquisire economie di scala.   
E’ ovvio che queste sono una parte delle proposte che un vero partito del popolo dovrebbe avanzare sulle politiche del lavoro, e non parlare semplicemente di ridurre le tasse, che nel sistema attuale significherebbe eliminare ulteriormente lo stato sociale.
Da ciascuno secondo le sue capacita è un enunciato che afferma già di per sé un principio di giustizia sociale: nessuno, neppure la società nel suo complesso ha diritto di chiedere a un suo membro più di quanto questi può dare. Inoltre, presuppone che queste capacità non vengano umiliate o ridotte, ma al contrario, valorizzate e promosse, in quanto fonte di ricchezza sociale, insieme all’individuo che ne è portatore. Nel contempo, impegna ciascuno, cioè tutti, a contribuire al progresso e al benessere della società. «A ciascuno secondo il suo lavoro›› stabilisce il principio che il lavoro individuale non sia più sfruttato dal padrone privato, che si appropria del prodotto del lavoro altrui, ma che sia remunerato, in termini di salario diretto, indiretto (diritto alla casa, alla sanità gratuita, all'istruzione gratuita, alla cultura, alla sicurezza sul lavoro, alla assistenza alla maternità e all'infanzia, alla garanzia del posto  lavoro, ecc.) e differito (pensione) sulla base del contributo che ciascuno dà allo sviluppo della società, misurato in ore sarà necessario o rinunciare lucidamente e asceticamente al mondo, oppure combattere e difendersi con ogni mezzo disponibile.
“Tu Troika, con le tue pretese nei confronti del popolo, non sei una Stato, non sei un organismo pubblico, in realtà sei un’agenzia privata al servizio di privati, e per questo io noi non siamo legalmente sottoposti a te, alle tue decisioni, pretese, regole, tasse incluse.
Anzi, io, noi, ci siamo già costituiti in una comunità Stato Repubblica: noi popolo ci riconosciamo in essa, e in essa esercitiamo i nostri diritti inalienabili, non in te che ce li hai tolti”.
Forse sorgeranno gruppi partigiani di uomini liberi che difendono o riconquistano il territorio fisico e soprattutto quello politico da un invasore privato che glielo ha sottratto, che non li riconosce e non li vede come soggetti bensì solo come componenti mobili e senza proprio valore del ciclo moltiplicativo del capitale finanziario. Uomini che perlomeno esercitano, nel combattere, i loro fondamentali diritti.  
Una lotta asimmetrica, guerrigliera, senza regole e senza esclusione di colpi, simile a quella dei popoli che già nella storia si sono difesi contro occupanti esterni e i governi fantoccio messi su dal capitalismo.
Una lotta tra uomini liberi e capitalismo.







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